in «la Ceramica Moderna & Antica», n. 256, 2006, pp. 8-9

Diavolo d’un Biffi (talvolta) Gentili: ha colpito ancora! Ha occhio, ha intuito, ha fortuna, mi fotte sempre, non c’è che dire, anche in casa, in Campania-ceramica. A parte Vietri sul Mare, ahiloro!, ora anche Napoli, la mia città, il mio dominio, il mio feudo ceramico, sic! Non c’è che fare, è troppo Superiore, ha studiato “Arti applicate” in Seminario, è per questo che ha “fatto” a Torino con Padre Goi il “Seminario Superiore Arti Applicate”, che speranze ho, miaaao, me meschino?, desisto o insisto?, sono scoraggiato, faccio karakiri o Karakicchiriki?
Prendete questa storia della Clara Garesio rediviva, anzi readyW: pratico da tempo lo studio di un caro amico scultore, Peppino Pirozzi, accademico di San Luca, nonché delle Arti Belle di Napoli, Accademia ove fino a poco tempo fa ha tenuto con amore la cattedra di Plastica nella Scuola di Scultura. Il suo studio sta a palazzo Albertini, poco più su del mio a Palazzo San Nicandro, entrambi d’epoca e di antica nobiltà del Regno di Napoli; il suo studio è una sorta di Chiesa, anzi di Congrega devozionale, con tutte le sue interrogative statue in bronzo religiosamente esposte e ben disposte al devoto, tosto però a sborsar quattrini per portarle via: non c’è più religione, la scultura è lingua morta, specie se non troppo accomodante, come quella di Peppino, scultore elegante “in giacca e cravatta”, appartenente ad una Napoli plasmata nel dopoguerra, in via di estinzione, ahinoi, ahilui!
Talvolta mi accennava al lavoro ceramico della moglie, che chiamava “la Garesio”, alla settentrionale, forse perché è di Torino; mi diceva che aveva insegnato alla Scuola di Capodimonte negli anni sessanta, anzi che aveva fatto parte di quell’eroica pattuglia dei fondatori (ne ha accennato in una lettera Luciano Landi su C.M, n. 251/2006, pp. 14 – 15, ndr), ma poi vedevo allo studio le porcellane “alla Capodimonte” che faceva, delle cose oneste, ben fatte, ma tradizionali, talora elegantemente commerciali, dipinte per piacere e compiacere, non mi interessavano tanto, passavo oltre.
Invece “la Garesio” era ben altro, e questo “bello ed altro” chi lo ha scoperto? Chi lo ha visto, evidenziato, premiato? Lui, SuperBiffi (talvolta) Gentili, il Robin Hood delle arti applicate, che leva ai ricchi artisti e dà ai poveri artigiani; lo Spartacus a capo della rivolta degli schiavi artistici-industriali; il Gattone del MIAAO dalle sette leghe che con un gran balzo ha arraffato la preda sabaudo-partenopea e l’ha riportata in Piemonte; dapprima a Castellamonte, nel 2004, subito dopo a Torino per l’inaugurazione del MIAAO. Ora a Vietri sul Mare, alla Fondazione Cargaleiro, mostra premio alla carriera. Non mi resta che piangere e scrivere per lenire il dolore! La storia della Garesio è bella e tipica della ceramica che si fa Cenerentola, conviene raccontarla per bene.
CLARANEVE
Clara Garesio è nata a Torino nel 1938, l’arte mantiene giovane perciò si può scrivere l’età delle signore; dopo le scuole elementari, essendo di modesta famiglia di lavoratori, è avviata alla severa disciplina professionale della benemerita “Civica scuola arte ceramica” del Comune di Torino, nei pressi di Porta Nuova; poi lo sbarco a 14 anni alla “Scuola dei Maestri” della Ceramica italiana, all’ISA Ballardini di Faenza, 5 anni del corso artistico, fino al 1957, in buona compagnia, con compagni di classe di qualità che “saranno famosi”: da Goffredo Gaeta a Pino Spagnulo; da Dino Mercante ad Alfio Godorecci, entrambi di Castelli d’Abruzzo; da Marino Baitello a Alfonso Piancastelli, fino a Carlo Zauli che stava più avanti negli studi, a tanti altri, tutti raccolti in uno struggente quadernino, oggi prezioso, ove ogni compagno di classe (ma anche qualche giovane docente come Mario Pezzi), ha lasciato una frase garbata, un disegnino efficace, un augurio per il futuro, un segno del passaggio faentino … Cinque anni dalle monache a Faenza, educazione rigida anni cinquanta severi, senza decorazioni: collegio e chiesa, scuola e museo (ricorda con devozione il severo direttore del MIC Liverani, docente all’ISA); le prime collaborazioni operative a commesse prestigiose (Scià di Persia); le prime partecipazioni a mostre d’arte; le prime segnalazioni, i primi premi, in casa, a Faenza. Ancor oggi Clara conserva, opportunamente inquadrato, il diploma del Primo Premio riservato agli Istituti d’arte, (ex aequo), conseguito al XIV Concorso di Faenza del 1956, quale allieva del “Ballardini”.
Poi il ritorno a Torino e l’immediato ingresso nel mondo del lavoro, decoratrice alla ViBi, quasi un anno, quindi, 1958, la chiamata dalla Grande Madre faentina, l’ISA Ballardini che, non dimentica dei suoi figli migliori, in quel tempo fungeva anche da agenzia di collocamento dei suoi allievi ben diplomati: il direttore Tonito Emiliani la segnala (diciamo meglio: garantisce) per l’insegnamento alla Scuola d’arte di Isernia diretto da Giorgio Saturni, una supplenza di “tecnologia ceramica”. “Grazie, parto subito, che fortuna!”, dice Clara che, lasciato il pennello alla ViBi, fa armi e bagagli e va a Isernia, allora un paesone che rinasceva dalle terribili ferite della guerra. Seria, precisa, puntuale, piemontese doc (ma con dentro, ben nascosto, un pizzico di follia eversiva, che manterrà intatta e nascosta nel tempo, fino ad oggi), viene riconfermata l’anno scolastico successivo: disegno professionale.
Sta lì, alla Scuola d’arte d’Isernia (che annoverava i laboratori di ceramica, legno, tessuti, …), tre anni; l’ambiente scolastico è interessante e vivace, fattivo, specie nell’officina ceramica, (si ricordi per tutti Belloni, non dimenticato) e “la Garesio” lavora felicemente dalla mattina alla sera, sta sempre in laboratorio, non ha nemmeno il cartellino orario: il piacere di fare & di fare scuola, didattica & ricerca fuse insieme, una sola cosa, un periodo irripetibile, magico, degli ISA. E poi si era tanto giovani, e l’Italia era povera, “poveri ma belli”!
Sul piano affettivo e privato “la torinese”, infatti, era preda ambita e proibita per i galletti locali, in quello scorcio di quegli anni cinquanta: le serate erano lunghe, “faceva freddo e tirava vento”, ma Clara era tutta d’un pezzo, poca confidenza, qualche lacrima per qualche avance indesiderata e via! Ma, c’è sempre un ma… ad Isernia, proprio in quella scuola d’arte, per la giovane torinese arriva ad un certo punto l’amore, anzi l’ammore di un distinto napoletano, Giuseppe Pirozzi, docente di plastica in quello stesso Istituto, destinato poi ad un interessante percorso nell’arte (è recentissima una sua prestigiosa personale riepilogativa a Napoli, al Maschio Angioino, a cura di Vitaliano Corbi, catalogo Paparo Edizioni, ndr).
Qui lo snodo della vita di Clara Garesio (e di Peppino Pirozzi scultore, suo marito): Nord o Sud?, Torino o Napoli? Bulloni o maccheroni? Industria, moda (la tesi di Clara al “Ballardini” era stata su questo versante della decorazione “sartoriale”, tipicamente torinese “falsa e cortese”, due pannelli in ceramica per una casa di moda) o Accademia d’Arte? Bello o Utile? Mammà, papà, ‘o sole mio, ‘e sfogliatelle, le mele annurche, ebbero poi la meglio. Clara cedette e “la torinese” di belle speranze ceramiche si ritrovò così impalmata (e forse impaludata) a Napoli, anche perché nel 1961 Marino Baitello, che stava rimettendo su la Scuola d’arte di Capodimonte, proprio nei locali dove nel ‘700 agì la prestigiosa porcellana della manifattura borbonica di re Carlo, l’arruolò nell’impresa. Un’epopea, Clara s’immerse – versatile ed entusiasta qual è – nella tradizione del “Capodimonte”, l’assorbì, dialogò bene con essa, mise da parte quel segno elegante, moderno, decisamente attuale e leggero del quale era “naturalmente” maestra e si fece conquistare dalle delizie di corte, dalla ceramica graziosa neo settecentesca, alias dalle pastiere, sfogliatelle e babà napoletani.
Sta lì, alla scuola del Neo-Capodimonte, altri cinque anni, fino al 1967 quando, per sopravvenute questioni burocratiche e di scartoffie di posti-cattedre, la Garesio scende di categoria scolastica: dalla media superiore va alla media inferiore, di base, arte & scuola obbligatoria; esce dal mondo delle scuole specifiche d’arte, dalla ceramica stessa, e opta per l’insegnamento nella scuola media statale, comoda, quotidiana, vicino a casa. Un karakiri, diciamo a verità! Un tempo si diceva che la ceramica, come tutte le arti “minori” (e talvolta minorate) era un’arte “ancillare”, e Clara si fece infatti veramente (ed alla lettera) ancella, focolare domestico, forse perfino serva d’arte. Certamente nascosta Cenerentola operosa. Clara Garesio si addormentò all’arte visibile e diventò Claraneve, con sette nani in bronzo di guardia. Per un trentennio ed oltre l’antica torinese farà la spola tra scuola, casa, marito, cura dei figli, due Francesca e Gianluca, oggi attorno ai quarant’anni, ben “sistemati”, e confezionerà ceramiche quotidiane ed altre sperimentazioni nell’ombra, molto applicate a mantenere la famiglia, dignitose “ceramiche alimentari”. Perde i contatti con il mondo “alto” della ceramica, con le riviste, con Faenza stessa, con gli antichi amici. Sparita all’arte!
ROBIN BIFF
Una desaparesida, una storia tipicamente femminile, “femmine” di un tempo, donne “sacrificate” al ruolo di mogli e talvolta badanti, commoventi per dedizione e modestia: il successo e la visibilità della famiglia d’arte Pirozzi – Garesio è delegata interamente “a Peppino”, marito-scultore tormentato e talora tormentoso; forse c’è lotta in famiglia, silenziosa, sotterranea, belle arti contro arti applicate, alto – basso, segno asciutto contro decorazione (e in quel tempo la decorazione e “l’applicato” non potevano che stare a casa, non potevano che uscire con le ossa rotte dal confronto: la decorazione è un delitto, aveva sentenziato la Kultura.)
Ma il tempo è galantuomo, “la torinese” sacrificata sull’altare dell’amore conserva le mani d’oro: versatile com’è, confeziona cuscini, borse, bambole, copritavola, bijouterie, teche; poi bacheche piene di icone e immaginette sacre, di lacerti d’eleganti riviste e figurine tagliate da libri di storia dell’arte; tutte cose fatte in sordina, domestiche, nascoste ai più, per pochi estimatori. Ma il fuoco covava caldo sotto la cenere, per Clara non era finita, venne la grande occasione, la svolta, il “fuori dall’ombra”: nel 2003 arriva da Torino a Napoli il “Bellissimo” grafico che doveva, nell’occasione, confezionare un cane in porcellana, per la mostra delle “biffesche” a Vietri sul Mare. Ha bisogno di un artefice adeguato: è così che Clara Garesio riappare sulla scena!
Si, il destino, le favole esistono ancor oggi, basta crederci! Cenerentola/Garesio, o se preferite Claraneve, sfugge al rospo e ai suoi sette nani di bronzo a guardia, incontra il Principe Biffi (senza baffo, ma a caval donato da Vietri), ed è la svolta: lui, Robin Biff, la guarda, immediato colpo di fulmine ceramico, riconoscimento della qualità sopita, un bacio sulla fronte e le parole: “alzati e cammina, Claraneve, hai dormito fin troppo, da quarant’anni a Napoli d’arte!”. Così Cenegaresio, ch’era stata tutto il tempo vicino al fuoco dei fornelli ceramici casalinghi, va di nuovo, con più lena, a quelli dell’arte e confeziona indefessamente, giorno e notte, cose stupende, ricollegandosi a quella radice astratto-decorativa torinese che aveva nascosto ai più: una furia, ha una fame da lupo, il suo segno è rabbioso, veemente, giovanile, fresco, miracolosamente scongelato dal frigo della storia (“in un certo senso non ho avuto gioventù”, confida oggi ridacchiando e serena, “riversavo tutto nei segni della mia decorazione, già quando stavo dalle monache a Faenza!”).
Clara Garesio, un’artista, una ribelle dentro, silenziosa e timida; ma anche, nella sostanza, sfrontata, irriverente, impertinente, birbante; una ceramista non doma, non domabile e non sopita nella “scuola d’obbligo” ceramica, anche familiare; qualcosa bruciava dentro, nel suo forno d’arte eccellente; c’era puzza di bruciato in quella donna maiolicata, appena in tempo, e poi sarebbe andato tutto in fumo. Un miracolo, una ribellione, la sua, tutta “torinese in esilio”, intessuta di un’ironia ceramica giocata tra “Macarietto scolaro perfetto” e la “Littizzetto che te lo dà col cavoletto!”
Il suo è un segno (maiolicato a vivaci colori), oscillante tra lo sberleffo gentil e l’eleganza snob, secondo me tipicamente torinese, “claracaturale”, “falsa e cortese”, come da noto detto; anzi “vera e gentili”, quella gentil-cortesia della modista applicata (e in questo caso maiolicata), talvolta un po’ equivoca –meno male!– com’è tipica della commedia dell’arte napoletana, da Scarpetta a Totò.
No, Napoli non l’ha toccata per niente, tanto meno Vietri sul mare: Clara Garesio è rimasta astratto-decorativa torinese nel profondo, il suo Dna è un’altra cosa, perciò Biffi (senza baffo) l’ha gentilmente riconosciuta subito, al volo, a Napoli; l’ha svegliata, scongelata, incoraggiata, recuperata ai vivi dell’arte nostra: alfin l’ha premiata, compiendo in tal modo un’opera meritoria di “giustizia storica e sociale”, due ‘cose’ che coincidono, nel suo pensiero di “socialismo aristocratico”, che ama enunciare con sofisticheria. Come ama rivendicare: un passato nobile, una linea operativa, prima che economica e contrattuale.
E’ quindi giusto che Enzo Biffi Gentili, principe-critico dell’applicato, rivendichi a sé ed alla sua azione museale a Vietri-decorata sul mare, finalmente liberata (dal suo punto di vista) di pasturielli e neonaif, la rediviva Garesio. Infatti scrive quanto segue, in occasione del conferimento di questa sorta di medaglia d’oro al valore ceramico, cioè nelle motivazioni della “Mostra-premio alla carriera”, Vietri sul mare 2006: “Clara Garesio, riprendendo a frequentare Vietri e la Fondazione, e a conoscere e apprezzare la sua missione di innovazione basata sulla tradizione, si sentiva, giustamente, sempre più viva. Incoraggiata da Manuel Cargaleiro, anch’egli altissimo esponente di quell’età d’oro che furono gli anni ’50 (ma poi sempre in ‘servizio permanente effettivo’), riprende a realizzare ceramiche. Che, guarda caso, proseguono e rafforzano quella linea ‘astratto-decorativa’, da Gambone a Cargaleiro (ma anche da Tot a Capogrossi a Franchini ad Autuori e anche a certo Raimondi…), che si sta affermando come l’altro lato, finalmente reilluminato, della splendida “luna vietrese”, opponendosi a quello, fintamente o veramente naif, dello ‘strapaese’ (e della “luna caprese”, ndr).”
Una dichiarazione di guerra: la lotta è aperta a Vietri sul (e sotto) il mare: Paesani contro astratto-decorativi! Ne vedremo delle belle (ceramiche)! Auguri Claraneve!