testo critico per il catalogo della mostra Clara Garesio. Ceramiche Timeless Glamour alla galleria Terre d’Arte di Torino, dal 6 dicembre 2007 al 12 gennaio 2008; in Clara Garesio. Ceramiche Timeless Glamour, Terre d’Arte, Torino 2007

 

La creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell’opera. Volta al passato la vedono tutti gli intellettuali, volta all’avvenire soltanto chi sa creare […] Un occhio che vede, l’altro che sente. (Paul Klee 1914)

Nell’odierno panorama delle arti, oscillante tra verità e menzogne, ambiguità ed idiozie, aggirarsi nel reame incantato di Clara Garesio è una momentanea pausa; un ritorno impossibile, ingenuo e felice alla bellezza. Occasione rara per deambulare in un territorio dove le cose dell’arte appaiono nel loro stato latente: immagini dell’intelligenza creativa. Semplicemente, i lavori emanano, fuori da ogni ostaggio retorico e da generiche “cifre stilistiche”, profumi rari, temi desueti quali: la felicità del fare, il magistero della raffinatezza. La Garesio, con generosa semplicità, rende possibile questo detournement estetico, questo spiazzamento linguistico mentre dona trasgressive frenesie cromatiche  contagiandoci con la sua ebbrezza del colore. In ogni angolo del suo studio appaiono alchimie materico/cromatiche, nelle quali ogni inciampo o difficoltà è dissimulato, azzerato. Nei boschi, come nell’arte, a volte, occorre perdere il sentiero, orientarsi con i sensi; nel caso dell’artista, siamo portati a seguire, come punto cardinale, la Semplicità; una semplicità che erompe da un corto circuito tra vertiginosa necessità interiore e assoluta padronanza dell’agire. E’ la disciplina consapevole del fare, la forza che riesce a coniugare queste infrazioni degli eccessi all’esercizio del gesto educato, creando un’anomala quanto affascinante combinazione di kaos e azzeramento, esultanza e liberazione.

Quella della Garesio è una lunga esperienza estetica, intervallata da altri stimoli, momentaneamente attutita nel corso degli anni da altre sollecitazioni, altre declinazioni, ma mai spenta nella mente. Ininterrotta l’elaborazione mentale ancora prima che manuale; anzi i lavori  così sorprendentemente freschi ed emozionanti, sono tali proprio perché, come fossili sono rimasti sigillati nelle pieghe di un silenzioso quotidiano, nei meandri della vita, trasformandosi da energia vitale in  pietre preziose.    

Due tratti colpiscono della personalità della Garesio: la leggerezza dell’umiltà, come misura esistenziale del non sentirsi mai trionfante, e il peso della generosità, con la quale, ella dona tutto di se in una ricerca dilagante, inesausta, golosamente pronta a farsi tentare, a spingere l’acceleratore oltre, verso l’osare tecnico, verso riferimenti, deroghe, altro.

Un intrigante contraddizione questo oscillare tra coerenza ed incostanza.

Anche un parziale affondo diacronico nell’iter della Garesio basta per cogliere, i segni di una insofferenza a limitarsi, a chiudersi in un progetto unico. Enfant terrible, precoce e tuttavia disciplinatamente attratta dalla perfezione ha attraversato con grazia gli anni di un ferreo apprendistato, poi con tenacità il discepolato scolastico con i maestri dell’arte che ne hanno incanalato le energie giovanili fino  al raggiungimento di una straordinaria padronanza tecnica e professionale. Indomita, malgrado la sua formazione sia passata anche attraverso esercizi di decorativismo e di natura più o meno accademica. La vena più creativa e sperimentale, pur all’interno della dottrina scolastica, si è manifestata dalla fine degli anni Cinquanta con la progettazione di  in un ricco diagramma di forme vascolari attraverso variazioni modulari interpretate dalla Garesio a volte con piglio vigorosamente  architettonico. Un progressivo approdo a forme geometriche essenziali si è coniugato ad una rigorosa ricerca segnica attraverso una intelligente rilettura delle radici dell’astrattismo europeo dando vita ad una delle anime della Garesio: quella grafica. La piena maturità espressiva è raggiunta quando la superficie dei manufatti si anima, accendendosi di costruzioni cromatiche, contrastate, palpabilmente aggressive, animate da saette fauve. Parallelamente si dipana un filone più metamorfico e sperimentale che sfocia in un deciso superamento della modellazione e ancora oggi in progress, si esplica una magnifica ossessione morfologica, attraverso superfici sdrucciolevoli, sinuose, crepitanti. Scenari costruiti d’impeto o attraverso stratificazioni successive, in una straordinaria gamma di effetti tattili: gibbosità, bollori, anfratti, magmaticità, trasalimenti della materia che suggeriscono echi informali. Effetti sensoriali inusitati: movimento, calore, combinati a timbri sonori che sembrano rimandare al mondo incantato di fiabe musicali: Il Flauto magico con le umide atmosfere del bosco ed il baluginare delle piume coloratissime o il giardino incantato di Kashchei dove appare all’improvviso l’Uccello di fuoco.

Si cattura il soffio del bello?

“Il colore mi possiede. Non ho più bisogno di afferrarlo, mi possiede per sempre, lo so. Questa è la rivelazione dell’ora felice: io e il colore siamo una cosa sola. Sono pittore” (Paul Klee 1914)