testo critico per il catalogo della mostra Clara Garesio. Fiorire è il fine a cura di F. Bertoni al Museo Duca di Martina, Villa Floridiana, Napoli dal 22 ottobre 2016 al 15 gennaio 2017; in F. Bertoni (a cura di), Clara Garesio. Fiorire è il fine, EditAlfa, San Sebastiano al Vesuvio 2016

 

A volte accade. Accade, cioè, che sulla scena del complesso e multiforme mondo della ceramica italiana appaiano nuovi attori, non solo contemporanei, com’è naturale, ma anche di lungo e prolifico percorso e non ancora adeguatamente apprezzati.
E’ il caso di Clara Garesio, nei primi anni duemila “scoperta” da Enzo Biffi Gentili con un corollario di autorevoli apprezzamenti critici, di mostre, di premi e di attestazioni. Lasciamo alla biografia e agli apparati di questo catalogo di dare più precisamente conto – sulla scorta dell’eccellente lavoro fin qui svolto dalla figlia Francesca Pirozzi – dei modi e dei tempi di una evoluzione artistica e limitiamoci ad alcuni aspetti essenziali.
Primo, Torino. Torino, non dimentichiamolo, è la città della Lenci e delle sue tante derivate. Impossibile che nella Civica Scuola d’Arte Ceramica da lei frequentata da giovanissima non aleggiasse ancora quel senso di qualità esecutiva e di sottile vena ironica e ottimistica – non disgiunta negli esempi più alti di Mario Sturani da una inventiva metafisica e surreale – che portò nelle case degli italiani afflitti dal grigiume del Regime un provvidenziale alito di grazia. Erano piccoli oggetti d’affezione che, disponendosi placidamente nei luoghi della casa, non aspiravano a perentorie affermazioni ma piuttosto, sulla scorta della grande tradizione delle arti decorative mitteleuropee, invocavano ancora una esteticità diffusa, una ultima traduzione in ceramica dei più piccoli moti dell’animo e una finalità domestica di fragili ceramiche destinate ad accompagnare negli anni le vite di tanti. Come sensibili orologi quegli oggetti accumulavano ricordi e ricordavano eventi. Leggere vaghezze, belle fantasie, immagini colorate delicate ed eleganti inducevano a credere nell’esistenza dell’”isola che non c’è”. Neverland: il luogo della libertà e dell’immaginazione.
Forse, furono queste premesse a toccare, in modo anche inconscio, le sensibili corde di un giovane animo femminile talmente colmo di gratitudine nei confronti della raffinatezza e della bellezza da voler contribuire in proprio a una loro diffusione.
Secondo, Faenza. A Faenza, Clara Garesio arriva su consiglio di Anselmo Bucci, uno dei membri della triade messa a capo della locale scuola di ceramica da Gaetano Ballardini, fin dal momento della sua fondazione. Domenico Rambelli si è dovuto trasferire a Roma per le sue compromissioni ideali con il fascismo, Maurizio Korach ha abbandonato l’Italia nel 1939 causa le leggi razziali e lo stesso Ballardini morirà l’anno successivo (1953) il suo arrivo a Faenza. Tuttavia il momento è particolarmente felice. Fino al 1957, anno del suo diploma in Magistero, Bucci è ancora ben presente nella scuola di ceramica e continua in un insegnamento e in una ricerca personale che hanno comune denominatore nella ricerca degli smalti e delle materie ceramiche, nella perfezione esecutiva e in una sostanziale indifferenza nei confronti delle tendenze artistiche dominanti. Senza cerebralismi, ideologizzazioni o posticce acculturazioni, Bucci, con poche opere e tempi lunghissimi di esecuzione, stupisce e meraviglia con i soli mezzi della ceramica: ricercate e risolte difficoltà, variazioni millesimali di colore, perfette conclusioni nel breve giro di un semplice vaso di ricerche estreme. Anche fuori dalla scuola il clima si muove in questo senso. Carlo Zauli (che Garesio frequenta) sta cercando di abbandonare la maiolica decorata per indagare un materiale ancora quasi inedito in Italia quale il grés e sarà il “bianco Zauli”. Ricerche sulle materie: era questo che induceva tanti studenti, italiani e non, e artisti anche affermati a frequentare Faenza in quegli anni. A Faenza si stava giocando una partita che avrebbe consegnato all’arte e all’industria nuovi mezzi espressivi. Non tanto la rimasticazione delle tendenze artistiche dominanti. Con Bucci e Zauli la ceramica afferma valori e potenzialità espressive non traducibili con nessuno degli altri medium artistici. Una lezione, nel tempo, esautorata dal dilagante pressapochismo di una contemporaneità, anche ceramica, più interessata al sensazionalismo iconografico che alla meticolosa, puntigliosa e difficile ricerca di eleganze ottenibili solo spingendo l’acceleratore su quella metà, oggi trascurata, del vivo corpo di qualsiasi arte: la tecnica. Una lezione che Clara Garesio, come dimostrano i lavori successivi all’uscita da Faenza, non ha mai dimenticato. Lo stanno ad attestare i vasi a smalti screziati o in porcellana dei primi anni sessanta: forme senza tempo particolare sui quali si sono adagiati, con apparente facilità ed evidente felicità, lucentezze, grumi di materia, colori e segni che, nella loro trasposizione astratta, sublimano dati naturali, emozioni e sensazioni in modo impareggiabile. Senza dimenticare le bellissime tavole grafiche degli ultimi anni della scuola e dei primi anni sessanta fitte di proposte e di dettagli e, per accuratezza esecutiva e composizione del foglio, vere e proprie opere fini a se stesse. In ogni caso, mai, in Clara Garesio, la supponenza dell’affermazione perentoria ma piuttosto la cattura del momento magico della trasformazione delle polveri e degli smalti, di un attimo memorabile e dell’ora felice all’interno di un recupero in chiave estetica di quelle teorizzazioni dell’empatia che anche nell’astrazione (da Vischer a Lipps a Worringer) avevano scorto capacità di immedesimazione e di comprensione delle emozioni anche in assenza di comunicazione verbale: solo con i colori, le linee e le forme.
Terzo, il bagno nel Mediterraneo. Nel 1962 – dopo anni di insegnamento a Isernia, dove lavora con Giorgio Saturni e frequenta, a Castelli, Arrigo Visani e Serafino Mattucci – Clara Garesio giunge a Napoli e quindi alla costa amalfitana e agli echi della felice stagione ceramica di Vietri sul Mare. Il periodo eroico di Günther Stüdemann, Richard Dölker, Margarete Thewalt-Hannasch, Irene Kowaliska è finito ma gli sono degnamente succeduti quelli di Guido Gambone, Salvatore Procida, Andrea D’Arienzo e con essi manifatture come La Faenzerella, la Ceramica Pinto, la CAS dei Solimene. Una ricca tavolozza di colori, mito mediterraneo e materie aspre e vibranti su forme tanto semplici quanto imperiture continuano ad affascinare. Che cosa avevano cercato i “tedeschi di Vietri” se non una via di fuga dalle pressioni della modernità? In fondo quello che il giovane Ernst Jünger, giunto nel 1932 a Curzola sulla fascia costiera della Dalmazia, ha così magistralmente sigillato: “Ci sono poche cose a cui possiamo abbandonarci interamente senza noia, e che disperdano l’esercito di pensieri alla cui aggressione continua siamo sottoposti nelle nostre città. Tra queste la visione delle fiamme guizzanti, il turbinare dei fiocchi di neve e il suono cupo, scrosciante, dell’onda che si abbatte sulla spiaggia. La vista, in lontananza, delle grigie mura di Curzola con le loro torri di guardia, poderose e tondeggianti, rafforzava la sensazione di essere fuori dal tempo: come trovarsi su una dimenticata costa medievale o addirittura in pieno mondo omerico”. Timelessness.
Senza tempo particolare sono le forme a volte arcaizzanti ma sempre semplici e mai semplicistiche di Clara Garesio, come gli sgargianti colori che irrorano tante sue opere. Forme e colori mai costretti entro le maglie di una funzione simbolica ma lasciati liberi di affermare puramente se stessi al di là di contingenze, ideologizzazioni o mode.
Prima o poi andrà scritta una storia dell’arte che tenga conto in modo particolare di quegli esempi che hanno in sommo grado espresso una gratitudine nei confronti delle piccole e grandi cose che ci circondano. Verranno annotati il fiore acquatico stillante rugiada del Brueghel di Capodimonte come il suo capolavoro dedicato al paesaggio invernale che avvolge il ritorno dei cacciatori, la Zolla e il Leprotto di Dürer conservati all’Albertina e via via, più vicino a noi, certo Turner, Courbet, gli impressionisti (ricordate le serie di Monet dedicate ai covoni, alle cattedrali o ai pioppi?) e su su fino all’informale, all’espressionismo astratto (quante affinità tra le ninfee di Monet all’Orangerie e il dripping di Pollock!) e anche alla Land Art. Tutti esempi in cui l’io sottace a favore dell’espressione di un puro atto di riconoscenza nei confronti di una realtà tanto misteriosa quanto affascinante. Almeno per chi è capace di sentire. Malevič ha scritto che albe e tramonti non si colorano certo così maestosamente per una vocazione estetica e Picasso, interrogato sulle sue opere più ostiche, ha risposto che anche se non comprendiamo il linguaggio (il canto) degli uccelli questo non ci impedisce di provarne piacere.
E allora, perché non sospendere, almeno per un attimo, pensieri e cerebralismi per godere pienamente dell’attimo magico e del momento memorabile senza gli ottundimenti e i diaframmi di transeunti teorizzazioni?
Erede ideale della grazia e della libertà immaginativa delle ceramiche Lenci, del culto delle materie di Anselmo Bucci e del vitalismo mediterraneo della moderna tradizione vietrese, Clara Garesio ha operato un originale mix in cui trovano felice unione una naturale vocazione all’eleganza e una mai esibita sapienza tecnica. C’è divertimento nella sua ceramica come ci sono le tecniche più appropriate e la vocazione a una affabulazione affabile, colloquiale, amichevole. Astrazione e figurazione convivono felicemente. Sui vasi foggiati a colombino o a lucignolo degli anni sessanta si adagia un immaginario astratto, stemperato dalle irregolarità delle superfici, che narra di delicati rapporti di linee e di toni; in alcuni vasi in porcellana degli anni ottanta le forme sembrano quasi composte con soli frammenti di colore; nelle composizioni con i volti degli anni duemila sono spesse colature ad alludere a personaggi fantasmatici. Esercizi, e lauree, di tecnica che permettono viaggi di andata e ritorno tra la realtà e l’immaginazione. Come appare chiaro in un’opera come Il pranzo di Babette del 2013: un metafisico piano in piastrelle tutte decorate diversamente sul quale sono posati oggetti quotidiani che, a ben vedere, si mostrano come inusabili o come semplici allusioni. Alcuni “guanti dechirichiani”, forse, alludono alle mani dell’artefice. Un’opera, questa, che può essere letta come stimolo concettuale, come scultura, come pittura e come astratto dispiegamento di tecniche. Un nodo inscindibile di inossidabile facilità tecnica e di debordante felicità creativa.
A qualcuno potranno sembrare “più nei tempi” i vasi in ceramica bianca del 1957 dai decori tra informale ed espressionismo astratto, i materici vasi foggiati a colombino del 1960 o In women’s hands del 2013 installato al Palazzo delle Nazioni di Ginevra ma si può anche pensare che Clara Garesio abbia condotto una ricerca senza radicali soluzioni di continuità. Nonostante il percepibile ed inevitabile progredire degli anni e delle sollecitazioni culturali, nel suo lavoro alcune forme e alcune tecniche ritornano e percorsi di ricerca interrotti o abbandonati trovano nuova voce e nuove vie. Senza tempo.
Come una volontaria ed erudita isolana allontanatasi per scelta dal rumore contemporaneo, Clara Garesio non è stata afflitta dall’”esercito dei pensieri” sull’arte e si è concessa il raro privilegio della gioia creativa più libera e pura, quella che si spiega da sé. Le sue ceramiche sembrano essere state realizzate tutte d’estate, in giorni bellissimi, sereni e dai colori smaglianti. Solo un innato esprit de finesse ha in qualche modo contenuto un totale abbandono alla infinita casistica di combinazioni coloristiche e materiche che, per virtù della ceramica, tanto avvicinano polveri e smalti ai destini umani e alle loro contrarie aspirazioni. In questo buen retiro, ora svelato, è felicemente avvenuto uno dei miracoli dell’arte: la trasformazione in ceramica di attimi di gratitudine e di omaggio alla bellezza.