in CON-CRETA-MENTE Ceramics and more, catalogo della mostra a Villa Rufolo a Ravello, Edizioni Menabò, Salerno, 2007

Essere donna e essere artista è una maledizione. Per non parlare di una donna-artista che abbia la sventura di soggiacere a sentimenti elementari, come l’amore. Le cose si complicano quando oggetto d’amore non è semplicemente un uomo: un medico, un avvocato, un banchiere, un idraulico… ma un artista. Già, perché un artista (senza l’apostrofo), per definizione è un narcisista egocentrico, accentratore, assolutista più di un dittatore, e intangibile e astratto come una divinità. Per propiziarsi la quale occorrono sacrifici. Talvolta anche umani.
In apparenza, lo scultore Giuseppe Pirozzi è il contrario esatto di queste qualità. In apparenza! Sembra umile, dolcemente umano, mite, disponibile. Sembra! In effetti, come tutti gli dèi di questo pantheon esclusivo, non ha disdegnato di accogliere gli incensi della sua sacerdotessa, la vestale Clara Garesio.
Tutto normale se Clara fosse stata semplicemente una donna; una stilista, un’operaia, una pediatra, una professoressa di sanscrito… ma Clara era a sua volta un’artista (con l’apostrofo). Dalla loro unione c’erano due possibilità: o che scoccassero scintille, provocando un incendio colossale nel quale sarebbero bruciati entrambi, o che uno dei due diventasse, appunto, il sacerdote dell’altro.
E Clara, la donna, la moglie, la madre, l’austera depositaria di valori ormai purtroppo obsoleti, ha optato per il sacrificio.
Come gli Ebrei nel deserto, è rimasta per quarant’anni nell’ombra, finché il suo Mosè, sotto le sembianze di Enzo Biffi Gentili, direttore del Museo Internazionale di Arte Applicata Oggi, il MIAAO di Torino, non l’ha tratta fuori, alla luce, additandole la Terra Promessa,
Può sembrare un caso, quest’incontro fortunato: in realtà era scritto nel destino di Clara, perché dentro di lei, malgrado l’esilio volontario, continuava a bruciare una fiamma costantemente alimentata, che nessuno ha potuto spegnere; né gli obblighi familiari, né la burocratica routine di insegnante di disegno professionale ceramico presso il nascente Istituto della Porcellana di Capodimonte.
Ma chi è veramente Clara Garesio? Da dove viene fuori? È una domanda che si pongono soprattutto i colleghi e gli abituali frequentatori di Giuseppe Pirozzi, ignari del fatto che nella sua casa, ben protetta agli sguardi, vivesse rinchiusa questa dirompente forza della natura.
Clara Garesio è semplicemente una rivelazione. È nata a Torino, la città più inflessibile d’Italia, con le sue strade squadrate che dovettero contribuire non poco alla follia di Nietzsche, in quella Torino sabauda e automobilistica, nonché patria di eminenti politici, filosofi e artisti impegnati, come il Gruppo dei Sei. Sono convinta che il luogo di nascita segni non solo l’inclinazione o il carattere di un essere, ma il suo destino.
Dal rigore architettonico, morale e comportamentale di Torino, dopo cinque anni trascorsi a Faenza, dove fu una delle migliori allieve del corso di ceramica e vincitrice di premi, la Garesio venne a imbattersi nel caos napoletano del dopoguerra. In quegli anni la tecnica, in ogni campo dell’arte, valeva ancora qualcosa. Ma la Garesio, pur padroneggiando una tecnica ineccepibile congiunta a una fantasia straripante, non potè partecipare alla competizione, in quanto, per quello stesso rigore che aveva assorbito dai muri, dalle strade di Torino e dagli insegnamenti ferrei dei suoi maestri, avendo scelto la professione di moglie e di madre, vi si dedicò con coraggio e ab/negazione.
Com’è possibile, si potrà obiettare, che un’artista divorata dal fuoco dell’arte si accontenti di preparare pappe per i bambini e camicie stirate per il marito? Com’è possibile che il suo talento lo consumi insegnando il disegno agli scolari o a foggiare stanche ripetizioni di un artigianato tradizionale quale è la porcellana di Capodimonte? Non è possibile. E questo è stato il dramma di Clara Garesio, un conflitto che deve averla segnata profondamente se oggi, preso finalmente il pieno possesso della sua vita, è letteralmente esplosa.
Sono rimasta folgorata davanti a questa deflagrazione di forme e di colori che sono le sue ceramiche, astratte nel senso in cui la fantasia è astratta, e disciplinate come può esserlo una terra arata. Perché è stata talmente interiorizzata la voce dei maestri, da diventare nella Garesio linguaggio naturale e autonomo. Al punto da superare qualsiasi tendenza contemporanea per rivelarsi come la stratificazione degli impulsi profondi, ancestrali, che formano il labirinto della psiche umana. Esattamente come le sedimentazioni della terra.
Quasi tutti i grandi artisti del Novecento, compreso Picasso, si dedicarono alla riscoperta di forme arcaiche e etniche, soprattutto vascolari. E in effetti, guardando i vasi a colombino o al tornio della Garesio sembra che anch’essa non sfugga a tali suggestioni. Sono vasi precolombiani, africani, mesopotamici che affondano le radici nei millenni, ma con una particolarità pittorica che è soltanto sua, E non solo per gli smalti che essa stessa elabora, ma per quella sorta di hybris fatta di scabrosità e levigatezza che li rende unici.
Vasi dalle fogge stranissime, tondi che hanno scomposto la luce e l’hanno imprigionata, quadrati traforati con sorprendente perizia per permettere alla luce di interagire con la materia e al vuoto di dialogare col pieno; rombi e losanghe che sono pitture nello stesso tempo in cui sono sculture. Un caleidoscopio fatto di materia è un ipnotico mandala: davanti ad esso ci si perde e ci si ritrova. Ma tutto questo non basta a spiegare l’incantesimo di questi colori-forme creati con la stessa felicità del Creatore nel momento del fiat decisivo.
Immergere le mani nella terra per plasmarla secondo la propria volontà provoca vertigini pericolose, perché qui si ha veramente a che fare con gli elementi primordiali: terra per formare, acqua per ammorbidire, aria per seccare, fuoco per indurire. Non per niente questi simboli cosmici hanno rappresentato un ruolo così grande nelle cosmogonie, nelle antiche filosofie dell’universo, in quello strano complesso di idee e di sogni che fu l’alchimia. La terra, l’acqua, il fuoco e l’aria generano delle immagini dominanti, che rimangono alla sorgente dell’attività che immagina il mondo. Per essere partecipi degli spettacoli e delle forze che animano il mondo, bisogna quindi necessariamente ritornare alle immagini che, da sempre hanno animato l’istinto poetico.
È ciò che ha fatto Clara Garesio. Sotto le sue dita la terra sembra possedere una sua intelligenza, che capisca ciò che si vuole da essa, che ascolti e obbedisca. Non stupisce, quindi, che le opere risalenti agli anni Cinquanta e le recenti, abbiano la stessa potenza. L’artista, infatti, non obbedisce a niente che non sia la propria immaginazione e il proprio, stupefacente talento.
E in un’epoca come la nostra, dove sembra che la volgarità e l’approssimazione abbiano contagiato anche l’arte, la Garesio è un esempio da additare alle nuove generazioni. Perché il talento, la disciplina e la poesia, che da sempre hanno informato di sé l’opera d’arte, non sono un peso di cui vergognarsi. Le mode passano, ma questi elementi non sono mai inattuali. Tutte le opere d’arte, e la ceramica in special modo, possono essere sepolte due, tre, quattromila anni, ma quando si riscoprono, ci rendono orgogliosi di appartenere alla famiglia umana che le ha concepite.
E di fronte a questi tempi vasti e silenziosi, che sono i quarant’anni di silenzio di Clara Garesio?